Il 12 dicembre scorso si sono svolte le elezioni presidenziali nella Repubblica araba di Algeria. Le urne si sono aperte in un clima teso e difficile, marcato da una crescente spaccatura fra l’establishment politico e le masse popolari. Mentre la politica ufficiale era impegnata nella campagna elettorale, le piazze piene – così come è stato negli ultimi nove mesi – spingevano gli algerini al boicottaggio delle elezioni, ritenute da molti un esempio di democrazia di facciata, funzionali solo alla solita cooptazione del sistema politico di Algeri.
La sfida per la Presidenza della Repubblica ha visto impegnate cinque personalità espressione della “vecchia politica” e in totale contrapposizione con le istanze emerse dal movimento Hirak che ha animato le piazze in questi ultimi mesi. I candidati ammessi alle consultazioni il 2 novembre scorso dal presidente dell’autorità di controllo sulle elezioni, Mohamed Chorfi, sono stati: il settantacinquenne Alì Benflis, precedentemente capo del governo; Abdelmadjid Tebboune, prefetto e primo ministro nel 2017 durante la presidenza Bouteflika; il ministro della Cultura e segretario generale del partito Rassemblement national démocratique (Rnd) Azzeddine Mihoubi; il ministro del Turismo Abdelkader Bengrina; e infine il segretario del partito Front el-Mostakbal e magistrato della suprema corte Abdelaziz Belaid.
I risultati ufficiali sono stati comunicati dal presidente dell’autorità di controllo, Chorfi, il giorno dopo le elezioni, e i dati hanno fatto emergere un quadro interessante. Il movimento Hirak aveva chiesto apertamente agli algerini di disertare le urne, come forma di protesta volta a delegittimare il vincitore delle elezioni. In effetti l’affluenza, inferiore al 40%, è stata molto bassa, soprattutto considerando l’importanza del passaggio politico e alla luce di una narrazione che ha puntato su un cambiamento reale della politica, ma che nei fatti non ha soddisfatto gli algerini. Il basso tasso di affluenza ha in qualche modo dato ragione alla piazza e anche la partecipazione degli algerini all’estero non è andata oltre l’8%. Si potrebbe comunque sostenere che queste siano state le elezioni più democratiche che il paese abbia conosciuto dall’indipendenza ad oggi, ma se si confronta l’affluenza attuale con quella delle elezioni nel 2014 – che conferirono il quarto mandato a Bouteflika – notiamo che in quel caso la partecipazione fu superiore del 10%.
Nella contestata tornata elettorale del dicembre scorso la vittoria è andata all’ex primo ministro Abdelmadjid Tebboune, che ha ricevuto il 58% delle preferenze, staccando di diversi punti percentuali gli altri quattro sfidanti. Come era facilmente prevedibile, la vittoria di Tebboune ha riacceso ancora di più le piazze. Fin dal giorno successivo alle elezioni, molti attivisti hanno confermato il loro rifiuto di accettare un cambiamento del sistema superficiale e non sostanziale. Le proteste hanno coinvolto tutto il paese, ma il fenomeno ha interessato particolarmente la Kabylia, una regione storicamente propensa alla ribellione nei confronti del potere centrale, dove si sono registrati anche danneggiamenti ai seggi elettorali. Analoghi episodi di tensione e violenza si sono verificati a Bouira, una città a sud di Algeri. In questi ultimi mesi le piazze hanno tenuto alta l’attenzione pubblica nei confronti della leadership politica e militare del paese, una pressione costante che ha portato a indire elezioni anche se da più parti si è cercato di posticipare il più possibile l’appuntamento con le urne. Va anche riconosciuto ai manifestanti il merito di aver saputo organizzare una protesta che nella maggior parte dei casi è rimasta pacifica.
Al momento la crisi algerina sembra destinata a complicarsi ulteriormente e con ciò dovrà fare i conti il nuovo primo ministro, Abdelaziz Djerad, nominato dal presidente Tebboune. Quest’ultimo, nonostante abbia stravinto le elezioni, è giunto al potere con una legittimazione popolare molto bassa, in considerazione della bassa percentuale di affluenza alle urne. Le piazze, in questo senso, sembrano averla in qualche modo spuntata: con il boicottaggio del voto hanno fatto pesare la loro forza “politica” e confermato ancora di più le loro aspettative, ovvero elezioni veramente “democratiche” e un effettivo cambiamento del sistema politico nazionale, di fatto ingessato fin dai tempi dell’indipendenza. In questo quadro manca tuttavia un attore fondamentale: l’esercito. I militari al momento non hanno assunto nessuna posizione ufficiale e ciò farebbe pensare che il loro obiettivo sia quello di mantenere in questa fase una posizione più defilata. Ciò potrebbe essere un effetto della complicata transizione interna alle Forze Armate legata alla recente scomparsa del potente capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Ahmed Gaid Salah.
L’Algeria, dopo la fine dell’era Bouteflika, si ritrova dunque con un nuovo presidente e con un governo in sostanziale continuità col passato. Tuttavia Tebboune e Djerad dovranno sin da subito fare i conti il movimento Hirak, che non ha nessuna intenzione di abbandonare la lotta pacifica nelle piazze. Ciò mostra chiaramente una tensione crescente nel paese e una frattura élite/popolo sempre più marcata, che rende difficile immaginare i prossimi sviluppi politici interni al paese. Ai nuovi leader spetta dunque il delicato compito di condurre l’Algeria fuori dalla crisi politica attuale.
Mohamed el Khaddar